Nel 2019, noi di ALTIS abbiamo aderito al progetto “RISE-ALB: Rafforzamento dell’Imprenditorialità Sociale in Albania”, promosso dall’associazione ENGIM Internazionale, il cui scopo è favorire politiche orientate allo sviluppo e dare impulso all’imprenditorialità sociale in Albania, contribuendo così alla diminuzione della disoccupazione giovanile e all’inclusione di soggetti svantaggiati e marginalizzati. ALTIS è stata coinvolta anche per sostenere lo sviluppo delle imprese sociali attraverso attività di formazione manageriale e imprenditoriale. Tra i business locali da noi supportati c’è KeBuono, co-fondata da un Alumnus dell’Executive Master in Social Entrepreneurship (EMSE).
Nel 2020, abbiamo portato avanti il nostro impegno affiancando Partners Albania for Change and Development e l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, nell’ambito di uno studio volto a mappare le imprese sociali nel Paese.
Le imprese a forte orientamento sociale esistono da tempo in Albania. Ai tempi del regime comunista, la produzione agricola si basava infatti quasi interamente sull’attività cooperativa. Questo legame con un passato doloroso non è però stato dimenticato, tanto che l’opinione pubblica continua a percepire negativamente le cooperative. Forse è a causa di questo che, in Albania, il concetto di “impresa sociale” è ancora poco chiaro e viene accettato con reticenza nel sistema economico nazionale.
Secondo uno studio dell’Unione Europea ("Social Enterprises and Their Ecosystems in Europe, Country Fiche: Albania", 2019), queste imprese esistono, ma sono attualmente catalogate in modo eterogeneo: associazioni, centri e fondazioni, cooperative agricole e società a responsabilità limitata. Infatti, nel 2016, la Legge 65 “Sulle Imprese Sociali” ha ristretto l’accesso alla forma giuridica di “impresa sociale” unicamente alle aziende non profit che forniscono una serie di specifici servizi a gruppi sociali marginalizzati, e che impiegano internamente un numero considerevole di persone provenienti da questi stessi gruppi sociali. La legge ha inoltre aggiunto altre restrizioni di natura economica e sociale, motivo per cui al marzo 2020 vi sono solo 6 imprese sociali registrate in tutto il Paese.
Di conseguenza, l’imprenditorialità sociale in Albania non è ancora regolamentata e questo comporta una carenza di informazioni sulle dimensioni e le caratteristiche del settore. Alcune stime, raccolte dallo studio UE, indicano che ci sono più di 300 imprese sociali de facto ma che sono registrate con altre forme giuridiche.
In assenza di un quadro ampio e comprensivo del settore, ENGIM ha chiesto alla sua controparte locale, Partners Albania, di svolgere uno studio il cui scopo era mappare le imprese sociali, focalizzandosi in particolare sulle loro caratteristiche organizzative. Il documento ottenuto dall’indagine, intitolato “Characteristics and Challenges of Social Enterprises in Albania”, è stato pubblicato nel settembre 2020 ed è stato quindi presentato al Ministero della Protezione Sociale albanese.
L’approccio di ricerca si è basato su un’analisi descrittiva svolta su un campione di dati raccolti tra marzo e aprile 2020. Le informazioni sono state raccolte tramite un apposito questionario semistrutturato, erogato online, e dati secondari ottenuti da precedenti rapporti e studi condotti nel Paese e all’estero. Sono state coinvolte 72 imprese non profit o a orientamento sociale, per lo più situate a Tirana e a Shkodra, che sono le città con maggiore concentrazione di questo tipo di impresa. Emerge che solo il 5% dei rispondenti, ossia 2 imprese, ha ottenuto la forma giuridica di “impresa sociale” riconosciuta dalla Legge 65/2016.
La maggior parte dei rispondenti sente di dare un contributo concreto alle principali sfide sociali del suo territorio e, in particolare, l’81% crede che otterrebbe supporto e finanziamenti se potessero dimostrare che con il loro operato pongono rimedio a problemi reali. Le principali soluzioni a problemi sociali consistono nell’assumere persone appartenenti a gruppi sociali marginalizzati (62%), nel favorire l’emancipazione economica, ad esempio femminile (50%), e nel proteggere i soggetti più vulnerabili, come donne, bambini e poveri (33%).
Il 31% si occupa di commercio equo, che protegge gli interessi di lavoratori locali, contadini e artigiani e garantisce una giusta retribuzione lungo tutta la filiera. Altre imprese indirizzano i propri servizi a specifici gruppi sociali, mentre solo il 5% svolge attività relative a turismo e cultura con un approccio di innovazione sociale.
Le 34 imprese del campione che già offrono prodotti o servizi a valore sociale operano prevalentemente in tre settori:
Queste si sostengono finanziariamente attraverso vendite di prodotti o servizi, quote associative o sovvenzioni, ma solo 28 generano profitti, che vengono investiti per aumentare il numero di dipendenti (75%), acquistare nuove attrezzature (75%), finanziare nuovi progetti (64%) e sostenere spese di marketing (57%). Nessuna di esse ha accesso a sovvenzioni statali, appalti pubblici, investimenti da business angel e schemi di investimento.
Le restanti imprese del campione, che non si occupano ancora in maniera preponderante di imprenditorialità sociale, si concentrano principalmente nel settore dell’agricoltura e dell’allevamento (25%) e in quello dei servizi educativi (25%).
In termini di governance, la maggior parte delle imprese sociali del campione prevede un processo decisionale partecipativo. L’81% coinvolge i propri dipendenti nelle decisioni, il 50% si rivolge anche ai volontari, il 43% ai beneficiari e il 36% ai clienti finali. Alcune di loro coinvolgono anche altre aziende, top manager e precedenti impiegati, che fanno parte del consiglio di amministrazione o partecipano alle assemblee generali.
L’accesso al finanziamento è il problema principale per le imprese sociali, che vengono percepite come business ad alto rischio e basso rendimento dagli investitori. Inoltre, le non profit faticano a conciliare un approccio imprenditoriale con la mission sociale, quindi devono affrontare maggiori difficoltà rispetto alla concorrenza profit. Allo stesso tempo, esse non godono di incentivi fiscali e ricevono nel complesso un trattamento fiscale poco vantaggioso. La vaghezza delle regolamentazioni e le complessità burocratiche non stimolano gli imprenditori a richiedere informazioni sul quadro normativo o a fare domanda per ottenere la forma giuridica di “impresa sociale”. Tali fattori pongono un serio rischio alla sopravvivenza delle imprese sociali in Albania e non favoriscono la nascita di nuovi business di questo tipo.
Nonostante questi elementi di difficoltà, il potenziale inespresso dell’imprenditorialità sociale in Albania può generare degli impatti importantissimi nel Paese. Le imprese sociali possono, tra l’altro, agire a livello locale, portando aiuto dove più serve. Così come sostenuto da Partners Albania, anche noi di ALTIS crediamo che questo esito potrà diventare possibile con l’introduzione di incentivi, investimenti, opportunità di formazione per gli imprenditori albanesi, e partenariati tra aziende e istituzioni.
Articolo redatto il 9 dicembre 2020 da Erika Lisa Panuccio
Lo studio di Partners Albania condotto con il contributo di ALTIS: “Characteristics and Challenges of Social Enterprises in Albania” (in inglese)
L'indagine della Commissione Europea: “Social enterprises and their ecosystems in Europe. Country Fiche: Albania” (in inglese)
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