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Carlo Paris: «La mia generazione ha “perso”, ma può rimediare»

È uno dei “volti” della sostenibilità in Italia. Sempre apprezzato nei suoi interventi pubblici e impegnato su diversi fronti professionali, Carlo Paris, Consigliere di Amministrazione Indipendente, Advisor per Sostenibilità, dedica il suo impegno ad accompagnare Società quotate e PMI su un percorso di sviluppo sostenibile, nel medio-lungo termine e di creazione del valore per tutti gli stakeholder. Agli albori di uno dei percorsi innovativi di ALTIS, nel 2014-2015, è stato alumnus della prima edizione del Master dedicato al Terzo Settore, ieri Emse, oggi Emtesis. La sua frequentazione con l’Alta Scuola ha dunque una lunga storia, che recentemente ha vissuto un altro interessante capitolo con una testimonianza al Master in Sustainable Business Administration – MSBA. Il nostro dialogo prova a ripercorrerla.

Quali argomenti avete affrontato?

La giornata riguardava l’esperienza nei Cda delle aziende chiamate ad affrontare il tema della sostenibilità e dell’adeguamento alle normative. Siamo partiti da un quadro generale sulle caratteristiche delle società, dalle start up fino alle quotate che, con modalità diverse, si trovano ad avere a che fare con queste problematiche.

Che cosa è emerso?

Abbiamo riflettuto su come la filosofia sottesa alla sostenibilità sia un modo di pensare da integrare in ogni fase del ciclo di vita delle aziende, anche laddove le normative non la rendono obbligatoria. Fin dai primi passi, per una nascente azienda, ma non solo, oggi è importante impostare il pensiero di un piano strategico che sia coerente e congruente con i temi della sostenibilità.

C’è il rischio che la sostenibilità sia percepita come un peso e ridotta a compliance?

Questi temi vengono normati da regole e pratiche internazionali, ma richiedono un impegno a monte, da parte dell’azienda, senza il quale qualsiasi norma rischia di diventare inefficace o di essere applicata rigidamente, risultando non funzionale al raggiungimento dell’obiettivo.

Analizzare il passato aiuta?

L’evoluzione di questi temi negli ultimi decenni ha dimostrato, purtroppo a posteriori, in seguito a svariati eventi drammatici, che la ricerca del profitto come unico obiettivo non tutela la salvaguardia e la resilienza delle aziende. La storia recente è ricca di episodi in cui imprese molto ricche sono quasi scomparse dal mercato per aver sottovalutato gli aspetti non finanziari della propria attività.

Ci ricorda qualcuno degli esempi trattati in aula?

Il disastro ambientale della BP nel Golfo del Messico, nel 2010, dove non erano state adeguate le spese di manutenzione delle valvole delle piattaforme petrolifere e il caso di Kodak, sparita per aver sottovalutato l’impatto dell’evoluzione tecnologica, in particolare della fotografica digitale, o la NIKE accusata di ricorrere al lavoro minorile in Asia. Oppure gli scandali di natura finanziaria e di assenza di trasparenza di Parlamat, Enron, Worldcome Toshiba.

Quale insegnamento si trae da questi casi in cui aziende ben posizionate hanno registrato quasi all’improvviso perdite enormi?

Questi eventi avversi hanno contribuito a sviluppare nel corso dei decenni una nuova coscienza ambientale e, contemporaneamente, hanno consegnato una lezione importante ai mercati finanziari, che si sono resi conto di non avere informazioni sufficienti per valutare l’affidabilità dei propri investimenti dal punto di vista ambientale e sociale. La conseguenza, dopo un lungo processo, è stata l’approdo alla nuova regolamentazione del 2019, con la richiesta da parte delle banche alle aziende di fornire informazioni aggiuntive di natura non finanziaria.

Ma, come accennava prima, la produzione delle informazioni diventa un atto meccanico burocratico senza un allineamento a monte sui di valori e sulle convinzioni di fondo…

Non diventa solo un atto burocratico ma, spesso e volentieri, i dati vengono forniti in maniera non veritiera o deformata, generando fenomeni etichettati come greenwhashing e affini. Vale allora la pena, quando si sta avviando la propria carriera, riflettere non solo sul come, ad esempio sulle modalità per eseguire una rendicontazione, ma anche, oserei dire soprattutto, sulla scelta a cui si è chiamati rispetto alla coerenza profonda con questi valori.

È una questione di identità?

Quando si esce dal come fare e si entra nel perché e nel voler essere, toccando aspetti del proprio essere più profondo, bisogna affrontare il tema con una certa delicatezza. Con la consapevolezza che non conta tanto il feedback immediato, ma quali frutti queste riflessioni porteranno nel tempo. Chi voglio essere e rappresentare, in relazione con me stesso e con gli altri? A quale scopo oriento il mio lavoro? Che significato attribuisco alla mia esperienza personale e lavorativa? Su quale terreno “testerò” la mia intelligenza? Sarà la vita a far emergere la posizione scelta, al di là delle dichiarazioni di principio: questo vale tanto per la vita personale quanto per le aziende.

La sua è stata dunque una testimonianza sulla radice di ogni discorso sulla sostenibilità, una riflessione su come porsi nel mondo. Alla luce della sua grande esperienza, qual è la sua risposta?

È una riflessione che nasce dal mio ciclo di vita personale: sono nato nel 1956, mi considero un baby boomer… Se vogliamo dirla meglio, appartengo alle generazioni di coloro che hanno contribuito a ricostruire le economie nel Dopoguerra. C’erano già stati 10 anni di sviluppo dopo la fine del conflitto ma gli anni 60, 70 e 80, nei quali mi sono formato e ho iniziato a lavorare, sono stati quelli del boom economico.

Negli anni Ottanta, all’epoca della presidenza Reagan, dopo la laurea in economia ha frequentato un MBA negli Stati Uniti…

L’enfasi su crescita economica, multi snazionalizzazione, espansione a tutti i costi e crescita industriale era molto forte. Per aggiungere un’altra nota storica, qualche anno prima, nel 1976, era stato conferito il Nobel a Milton Friedman, che anteponeva l’interesse degli azionisti a qualsiasi altra considerazione. Questo per dire che la mia generazione è stata interprete di un certo sogno industriale: col senno di poi, bisogna riconoscere che l’abbiamo inseguito perdendo lucidità sulle conseguenze ambientali e sociali di questa impostazione. A decenni di distanza, il mio compito è quello di guardarsi indietro, acquisire consapevolezza e lasciare una testimonianza, alle nuove generazioni.

In che modo?

Anzitutto, con uno spirito di restituzione, a chi è interessato ad apprendere, della fortuna cha la nostra generazione ha avuto nel poter crescere in una stagione di pace. Come nella cultura degli indiani d’America gli anziani del villaggio andavano a formare i giovani guerrieri sui segnali della foresta anche io mi sono messo su questa scia.

Intanto le nostre foreste si sono ammalate e ridotte…

A maggior ragione, noi anziani abbiamo la responsabilità sociale di insegnare ai “giovani guerrieri e alle giovani guerriere” di domani che senza cambiare rotta non ci sarà un futuro positivo in termini climatici e ambientali. Abbiamo sfruttato un terzo delle risorse del pianeta ora ci stiamo rivolgendo agli altri due terzi delle terre immerse. Con che spirito lo facciamo?

Torniamo al ruolo delle aziende e dei manager del futuro…

Noi credevamo che le risorse fossero illimitate e non avevamo esperienza diretta delle conseguenze ambientali, sociali e sanitarie di certe scelte. Per restare all’Italia, pensiamo alla Terra dei Fuochi in Campania o all’Ilva di Taranto e all’incremento del numero di malattie oncologiche. Ma in generale, pensiamo alle tracce di plastica che si trovano ovunque, nell’ambiente come nei nostri corpi. Oggi questa consapevolezza l’abbiamo maturata e dobbiamo restituirla e condividerla, cercando una nuova modalità di vita.

È questo il legame tra conseguenze ambientali e diseguaglianze sociali?

Gli squilibri cui rimediare sono tanti. Limitiamoci ad un esempio: se la ricchezza mondiale è concentrata per la maggior parte nel 5% della popolazione, mentre il resto si ritrova senz’acqua o in situazioni comunque di povertà, non ci si può lamentare delle migrazioni. Questi sono ovviamente problemi di natura generale che coinvolgono tutti, dalle istituzioni alla testimonianza personale.

Lei come li affronta?

Naturalmente con il lavoro nei molteplici ambiti di consulenza strategica nei quali sono impegnato, dalle piccole alle grandi imprese. Ma anche continuando a studiare… come se fossi ancora uno studente: frequento molti corsi sulla sostenibilità per restare aggiornato sulle nuove normative, talmente complesse da essere diventate ormai un mestiere. Ritengo perciò importante anche da parte mia trasmettere il messaggio che bisogna continuare a studiare.

Su che cosa non siamo ancora pronti?

Lancio uno spunto tra i tanti. Bisogna creare un’alleanza con l’intelligenza femminile per essere sempre più complementari. Non si tratta di sostituire gli uomini con le donne, ma riconoscere l’eccellenza degli uni e delle altre, lavorando insieme per un futuro migliore.

di Nicola Varcasia

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